Nascita del tricolore Italiano

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Un drappo di stoffa che viene usato per simboleggiare un’ identità. In esso si possono rintracciare i colori che rappresentano i valori di un agglomerato umano. Ci sono varie teorie sulla nascita del tricolore che sventola tutt’oggi in tutto il Paese. La più accreditata è fatta risalire al periodo napoleonico.  Il 7 gennaio del 1797 a Reggio Emilia nacque il tricolore italiano. Prima dell’Unità d’ Italia. Quando all’ interno del parlamento della Repubblica Cispadana, il deputato Giuseppe Compagnoni, vide approvata la sua proposta di “rendere universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti”. Questi tre colori dapprima sistemati in orizzontale presero ispirazione dalla bandiera francese. Nel territorio italiano del 1796, in un contesto in cui le armate napoleoniche vittoriose nella campagna militare dell’epoca si registrò l’ affermazione di  diverse repubbliche di ispirazione giacobina che assunsero stendardi tricolori. Inoltre i  reparti “italiani” dell’epoca che affiancarono l’esercito napoleonico assunsero i colori verde, rosso e bianco. La legione lombarda fu l’esempio più calzante. I tre colori prima citati erano già presenti nello stemma del comune di Milano. Il verde era già presente nelle uniformi della guardia civica milanese. Tuttavia anche i soldati dell’ Emilia e della Romagna assunsero questi colori nei loro vessilli e da questa impostazione  venne presa la decisione della Repubblica Cispadana di confermarli nella sua bandiera. Lo stemma della repubblica abitava il centro bianco del vessillo, stemma che consisteva in un turcasso contenente quattro frecce, circondato da un serto di alloro e ornato da un trofeo di armi. L’ 11 maggio 1798 la Repubblica Cisalpina assunse i tre colori nel formato delle bande verticali. Dopo la seconda campagna napoleonica attorno al 1814 il tricolore cessò di essere percepito come vessillo dinastico o militare ma venne per la prima volta percepito come simbolo del popolo, recante valori di libertà e di identità.  Il 7 gennaio del 1897 Giosué Carducci in un discorso a Reggio Emilia ebbe a celebrare la nascita del tricolore italiano dando questa interpretazione del tre colori “il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l’anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi”.
Concluse il suo intervento con il monito “L’ Italia è risorta nel mondo per sé e per il mondo, ella, per vivere, deve avere idee e forze sue, deve esplicare un officio suo civile ed umano, un’espansione morale e politica. Tornate, o giovani, alla scienza e alla coscienza de’ padri, e riponetevi in cuore quello che fu il sentimento il voto il proposito di quei vecchi grandi che han fatto la patria; l’Italia avanti tutto! L’Italia sopra tutto!” . Sperando quanto meno che sia un incoraggiamento per rendere questo Paese un luogo degno della cultura che lo ha caratterizzato da sempre.

Ettore Poggi

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Umanità Fallahata

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L’articolo di oggi era già pronto da ieri: una parodia del dittatore nord coreano Kim Jong-un nel giorno del suo trentaduesimo compleanno. Ma nella giornata di ieri, 7 gennaio 2015, l’ironia ha ceduto il passo alla morte. A Parigi, un gruppo armato terrorista ha fatto irruzione nella redazione del giornale Charlie Hebdo, decretando la morte dei fumettisti e dei giornalisti, che il quel momento stavano lavorando, rei di aver trattato in maniera satirica l’Islam. Così è stato, dodici morti.

Epurando per quanto possibile l’avvenimento dalle immagini shock apparse nei video amatoriali, dal clamore dell’avvenimento, rimane il gesto di estremisti che hanno ucciso in nome di un dio. Cercando di affrontare razionalmente la questione, alcune precisazioni ritengo che siano d’obbligo. Nessuna persona vivente in questo pianeta può conoscere quelle che siano le volontà di un dio, chiunque esso sia e in qualunque forma o stato esso si presenti. Nessuno. Tutti noi possiamo azzardare, possiamo supporre, possiamo interpretare o come più spesso accade tra i sette miliardi di persone viventi attualmente sulla terra possiamo credere che un dio ci renda partecipi della sua conoscenza. Azzardare, supporre, interpretare, credere non è conoscere. La conoscenza e la sapienza spettano solo a dio, chiunque esso sia e in qualunque modo esso si chiami e si manifesti. Noi non abbiamo la conoscenza e non abbiamo la sapienza sennò non saremmo esseri mortali, ma saremmo dei che vivrebbero nell’olimpo dell’eternità. Questa considerazione, del tutto personale ovviamente, stride fortemente con le manifestazioni di violenza che gruppi fanatici esercitano nei confronti di semplici cittadini perché questi hanno offeso il loro dio. Questa non è manifestazione del proprio credo: non lo è stato il gesto di ieri, come non lo erano le crociate mille anni fa.

Stride fortemente pensare al fatto che un essere superiore possa avere creato un mondo armonico in cui la natura stessa si sussegue in cicli perfetti da millenni e poi questo stesso dio abbia creato l’uomo con il solo scopo di uccidere in nome dello stesso dio che lo ha creato. Evitando ogni deriva demagogica e cercando di ridurre la questione in termini semplici: uccidere nel nome di dio non è fare la volontà di quel dio, ma l’opposto, è diffondere odio e morte. Quando siamo stati creati penso (o meglio suppongo in modo da essere costante con quanto sopra scritto) che l’arma che ci sia stata donata da dio sia l’amore: non c’è niente da fare, a queste parole si può sorridere, credersi forti e superiori, veri uomini duri senza sentimento, ma per questo siamo stati creati, per amare. L’uomo non è un animale che si è evoluto per rimanere solo ma per vivere in comunità e per riprodursi, tutto questo tramite l’amore e non importa verso quale sesso se il proprio o l’opposto, ma è solo l’amore che conta. Questo qualcuno prima di noi lo aveva anche capito e lo aveva detto in parole semplici:

“Stiamo cercando di capire l’amore, c’è qualcosa di più importante?”

Cit. Paolo VI

“L’amore è l’ultimo limite dell’umanità e ad esso dobbiamo tendere”

Cit. Mahatma Gandhi

“Ogni buona azione è carità. Il vero benessere di un uomo nell’aldilà è quello che egli fa in questo mondo ai suoi simili”

Cit. Maometto

Roberto Rossetti

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City Lights

 

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Nel gennaio 1931 Charles Spencer Chaplin lavora a quello che diventerà uno tra i film più belli diretti e interpretati dal regista e attore, City Lights. La pellicola sembra passare in secondo piano rispetto a capolavori entrati nel pantheon della filmografia mondiale quali Modern Times e The great dictator, spettacoli che hanno consacrato l’immortalità di Chaplin. Tuttavia, è proprio il film che non ti aspetti, City Lights, a raccontarti la storia di Charlie, ed è in questo film che egli maggiormente si riconosce.

La storia racconta di una ragazza non vedente che un giorno, per strada, incontra un uomo, “il vagabondo”, che ella crede essere un aristocratico; “il vagabondo” si innamora subito della giovane ragazza, con la quale nasce un’intensa amicizia, e cerca in ogni modo di raccogliere il denaro necessario affinché la ragazza si possa operare. Charlot incontra un uomo molto ricco che durante la notte, da ubriaco, accetta come amico il “vagabondo”, mentre di giorno, da sobrio, lo ripudia. In modi rocamboleschi Charlot riuscirà a trovare il denaro necessario e la ragazza, attraverso l’operazione, riacquisterà la vista; i due si rincontreranno e la giovane riconoscerà dalle mani il “vagabondo” che ella scoprirà così non esser ricco. Con questa storia, Chaplin si è raccontato. Prima di tutto la contrapposizione tra ricchezza e povertà. Egli che era un ragazzino povero e viveva in uno dei quartieri più degradati di Londra, diventa una delle persone più ricche e conosciute al mondo e utilizza per i suoi film, come suo personaggio, un povero vagabondo vestito di stracci, ma che indossa sempre la cravatta come segno di dignità. In secondo luogo il rapporto con la madre, la persona più importante della sua vita. Hannah Hill soffrì per tutta la vita di una malattia mentale e il giovanissimo Chaplin, non avendo i soldi per farla curare, fu costretto a rinchiuderla in un manicomio; soltanto parecchi anni dopo e raggiunto il successo poté disporre del denaro necessario per le cure essenziali, ma ella purtroppo non guarì. Infine, il rapporto con la ragazza, la quale una volta scoperto che egli non è l’aristocratico che ella si immaginava lo abbandona al suo destino, di vagabondo appunto, nonostante egli le abbia fatto comprendere tutto il suo amore; segno superficiale che la ricchezza è una delle vie che possono condurre più facilmente all’amore. Charlot ancora una volta abbandonato dall’ennesima donna se ne va con il suo passo claudicante a piedi aperti, con il bastone e il cappello a fargli da compagno. Nonostante il film sia muto, le emozioni che riesce ad evocare sono intense: i primi piani sui visi e sugli sguardi dell’attore e della ragazza raccontano la storia più di quanto lo possano fare le parole, che quasi sembrano inadatte e fuori luogo, quasi possano rovinare l’armonia del silenzio di quegli sguardi. La scena finale in cui Charlot e la giovane sono mano nella mano e si guardano negli occhi, è una di quelle scene che sarebbero da fermare nel tempo, stampare, incorniciare ed appendere nei nostri cuori perché lì c’è tutta la bellezza, la grandezza, la tenerezza, l’amore e l’emozione del vagabondo, di Chaplin e nostra.

 Roberto Rossetti

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L’inizio della Primavera di Praga

primaverapragaPraga, Il 5 gennaio del 1968, Alexander Dubček venne eletto segretario generale del partito comunista cecoslovacco. La Cecoslovacchia dal 1955 era firmataria del patto di Varsavia con l’Unione Sovietica e altri paesi del Blocco Sovietico. Patto che metteva i paesi alleati dell’Urss in una condizione di subalternità. Dubček sostituì Antonín Novotný, legato al partito comunista sovietico, dando il via al “nuovo corso”.
Iniziò la Primavera di Praga. Il nuovo corso che Dubček si propose di istituire nella Cecoslovacchia fu la concretizzazione di un processo di democratizzazione del paese. La realizzazione del “socialismo dal volto umano”. Questa necessità riformista partiva da lontano. Negli anni precedenti si era sviluppato un certo malcontento derivante da una fallimentare conduzione del terzo piano quinquennale del 1962. Ciò provocò una diminuzione del reddito nazionale l’anno successivo. Ad acuire lo stato di crisi fu la consapevolezza che le linee guida impostate erano dettate per lo più da Mosca. Ciò si sommava alla presa d’atto che il processo produttivo subì già un ridimensionamento considerevole nel decennio precedente sempre per assecondare le esigenze del paese guida, ovvero l’Urss. Questa situazione aprì una spaccatura nel partito comunista cecoslovacco. Frattura determinata dalla contrapposizione di un’anima filosovietica e una riformatrice di stampo slovacca. Inoltre la questione slovacca si faceva sempre più urgente dal momento che emergeva la mancata armonizzazione tra la compagine Ceca e quella Slovacca. Quest’ultima lamentava una penalizzazione a livello economico e una ingiusta repressione politica. Questo scenario favorì l’entrata di Alexander Dubček, già segretario del partito comunista slovacco. Le riforme riguardavano essenzialmente tre aspetti: introduzione di forme di mercato e iniziativa privata in alcuni settori; progressiva demolizione della censura attraverso una prima forma di libertà di stampa e di critica; tutela maggiore della persona da parte dello Stato Socialista. Queste azioni vennero guardate inizialmente con molta prudenza anche dallo stesso movimento operaio che temeva una possibile deriva capitalista. Ma la strada è quella della partecipazione concreta dei lavoratori nella gestione del lavoro e la pianificazione economica. Nei mesi successivi ci fu l’abolizione della censura. Seguì anche l’elezione nelle fabbriche dei delegati non più nominati dall’alto. Questi atti generarono preoccupazione nell’Urss e negli altri paesi satelliti che minacciarono di intervenire militarmente. Il pericolo dell’invasione sovietica fu decisivo. Gli operai e gli studenti si strinsero attorno al governo riformista.  Sebbene in Cecoslovacchia ci fu un’iniziativa riformista condotta dagli esponenti della politica e non una protesta popolare come avvenne nel 1956 in Ungheria, non si fece attendere la brutale e liberticida reazione dell’Unione Sovietica. Questa azione repressiva non produsse gli effetti auspicati anzi fece emergere gli aspetti più vulnerabili su cui l’Urss fondava il suo dominio sugli stati satelliti. Ovvero la folle paura dello stato sovietico della libertà altrui.

Ettore Poggi

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Cento passi tra mafia e libertà

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Peppino Impastato nacque il 5 gennaio 1948 a Cinisi, in provincia di Palermo; morì all’età di trent’anni per essersi opposto e per aver denunciato il sistema mafioso presente nel proprio territorio. Peppino fu un giovane che non accettò di allinearsi al clima omertoso presente nella Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta, non accettò mai di tacere di fronte all’evidente corruzione chela mafia e i clan della provincia di Palermo conducevano nelle zone della provincia, non accettò mai di rimanere in silenzio di fronte ai soprusi e alle violenze dei mafiosi nei confronti di coloro che, pochi, osavano ribellarsi, non accettò mai di abbassare la testa e di baciare la mano al boss del paese, non accettò mai di considerare persa la sua battaglia solitaria di giustizia, libertà e condanna della mafia. Peppino denunciò i boss mafiosi, compreso quello del proprio paese, Don Tano Badalamenti, e l’atteggiamento mafioso dei suoi compaesani, dei siciliani e di tutti coloro che pur vedendo, pur sapendo, giravano la testa per non vedere, non sentire, non sapere, facendo così il gioco di Cosa Nostra. Peppino lottò ogni giorno per liberare la propria terra dalla mafia. Ritengo che tutto quello che si debba sapere sulla vita di Peppino Impastato sia questo. C’è, tuttavia, una seconda biografia che mi piacerebbe portare alla luce e che sembra accomunare tanti altri ragazzi, uomini e donne, magistrati, commissari di polizia, agenti di polizia e uomini della scorta, morti giovani per mano della mafia: Rosario Livatino (38), Calogero Zucchetto (27), Roberto Antiochia (23), Ninnì Cassarà (38), Beppe Montana (34), Antonino Montinaro (30), Rocco Dicillo (30), Vito Schifani (27), Claudio Traina (27), Eddi Walter Cosina (31), Emanuela Loi (25) e Vincenzo Fabio Li Muli (22) e tanti altri. Costoro furono accomunati dalla convinzione che la legge fosse il bene e la mafia il male, soli nella propria terra e tra la propria gente, considerati illusi per la volontà di sconfiggere un avversario troppo forte e potente, considerati scomodi per non rimanere al proprio posto, in silenzio come tutti gli altri. Mi piace ricordare Peppino e questi ragazzi trentenni come persone che con coraggio hanno scelto di dire no alla mafia, hanno deciso di rimanere dalla parte del bene nonostante il male fosse più forte, hanno scelto di lottare per cambiare le coscienze con il loro esempio, hanno respirato quel “fresco profumo di libertà” che la ha rese libere di rifiutare “il puzzo del compromesso morale, della contiguità e quindi della complicità“. E’ stato grazie al sacrificio di Peppino che la gente ebbe il coraggio di affiggere un manifesto con scritto che Peppino non si era percosso da solo e poi suicidato, come brillantemente avevano subito riportato le forze dell’ordine e gli organi di stampa locali, ma che gli assassini di Peppino avevano un nome: “Mafia”. E’ stato grazie al sacrificio di Peppino che i giovani siciliani ebbero il coraggio di mobilitarsi, anche il giorno del suo funerale e di scortarne in massa la bara, di scendere in piazza e di manifestare a viso aperto il proprio dissenso verso i mafiosi.Cento passi separavano la casa di Peppino da colui che lo fece ammazzare, Don Tano Badalamenti. Il boss di Cinisi non capì mai Peppino, lo ritenne sempre più scomodo che pericoloso, circondato da pochi amici innocui: Don Tano comprese solo il giorno del funerale di Peppino, quando il suo ordine rivolto ai cittadini di Cinisi di non partecipare non venne ascoltato, quando vide la gente in piazza a manifestare contro la Mafia, quanto era stato grande Peppino e quanto aveva saputo coinvolgere le persone senza armi, soldi o potere, solo con la forza delle sue idee di bene e giustizia.
Cento passi che si trasformarono da quel giorno in migliaia di giovani passi che tutt’oggi camminano insieme per gridare, come faceva Peppino, che la Mafia è una montagna di merda.

Roberto Rossetti

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