Woody Allen 80

Woody-Allen-1

Gli ottantanni di Woody Allen sono l’ occasione per celebrare un cinema diverso da quello a cui Hollywood ci ha abituati dagli inizi. Allan Stewart Königsberg, il vero nome del regista newyorkese, ebreo che ha esportato l’autoironia della cultura ebraica nel cinema attraverso un uso spesso spiazzante e deviante dell’ ironia. Allen ha toccato tutti i registri del cinema dalla commedia al dramma. Rese bersaglio della sua ironica fustigazione la borghesia e il capitalismo. Tra le strade percorse per arrivare alla risata ci sono le sue conoscenze letterarie e musicali, le competenze di psicoanalisi  tratte anche da una assidua frequentazione con essa per grande parte della sua controversa esistenza. Di lui si è detto tutto e il contrario di tutto, ma per i suoi ottant’anni forse è meglio avventurarsi nella sfera cinematografica citando alcune delle sue frasi ad effetto spesso ispirate all’ umorismo di Groucho Marx.

“Il mio unico rimpianto nella vita è di non essere stato un altro”

“Penso a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore, mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina!”. E il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”. E quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?”. Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi… Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.”

“Penso sempre che per il mio compleanno mi facciano una festa con una torta enorme da cui esce una donna nuda e gigantesca. Mi picchia e torna nella torta.”

“Stavo pensando che devo avere qualcosa di storto, perché non ho mai avuto una relazione con una donna che sia durata più di quella tra Hitler e Eva Braun.”

“C’è poi… c’è quell’altra battuta – importante per me – attribuita a Groucho Marx… ma io credo che risalga a Freud, quando parla del motto di spirito e dei suoi rapporti con l’inconscio. Dice… cito a memoria… dice… parafraso… dice: “Non accetterei mai di far parte di un circolo che accettasse fra i suoi soci uno come me”. Questa è la battuta chiave della mia vita d’adulto per quanto riguarda i miei rapporti con le donne.”

“Lo psichiatra mi chiese se avevo una ragazza, e io risposi di no. E poi mi chiese se ero mai stato innamorato. Ecco, dunque, una volta io credetti di esserlo: mi fischiavano le orecchie, il cuore mi batteva, ero tutto rosso… Avevo la varicella.”

“Hai mai preso una posizione politica in vita tua?”. “Sì, da piccolo rifiutai gli spinaci per 24 ore!”.

“Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana in più e in quella settimana pioverà a dirotto.”

“Gli Americani non gettano mai via i loro rifiuti. Li trasformano in show televisivi.”

Ettore Poggi

 

Please rate this

Risoluzione ONU 181: la partizione della Palestina

palestina_israele_20091

Dopo il collasso dell’impero ottomano alla fine della I guerra mondiale, il territorio palestinese passò sotto il controllo inglese. Alla fine della II guerra mondiale, tuttavia, gli inglesi preferirono rinunciare al loro mandato e posero la zona nelle mani dell’ONU, in quanto non era più possibile per il regno britannico mantenere l’ordine in quei territori. L’ONU istituì così un comitato speciale, l’UNSCOP, United Nations Special Committee on Palestine, al fine di trovare una soluzione gestionale che potesse fornire stabilità a lungo termine. La proposta dell’UNSCOP fu quella di creare due stati, uno arabo ed uno ebraico, e di considerare Gerusalemme corpus separatum sotto il controllo delle nazioni unite.
Dal punto di vista territoriale, la partizione proposta privilegiava leggermente lo stato ebraico, che avrebbe coperto il 56% del territorio totale; dal punto di vista della popolazione, la Palestina all’epoca era occupata per 2/3 da arabi e un per 1/3 da ebrei: Il 2% degli ebrei, cioè 10.000 persone, dopo la partizione non si sarebbero trovati né nello Stato ebraico, né nella zona internazionale di Gerusalemme; il 31% degli arabi, ossia 405.000 persone, non si sarebbero trovati a vivere né nello Stato arabo, né a Gerusalemme.
Le reazioni a questa proposta furono disparate e richiesero lunghi negoziati preliminari: gli ebrei accettarono di buon grado il piano, mentre gli arabi lo rifiutarono fin da principio; l’ONU dovette ricorrere a più votazioni per arrivare a quella definitiva del 29 novembre 1947, la cosiddetta “Risoluzione ONU 181”, ovvero l’approvazione del piano UNSCOP da parte dell’assemblea generale delle nazioni unite.
Seguirono immediatamente scontri e guerriglie tra la popolazione ebraica e quella araba; alla partenza delle truppe inglesi nel maggio del ‘48 il conflitto si estese e diede luogo alla guerra arabo – israeliana.
La “catastrofe”, così è chiamato in arabo questo conflitto, portò all’origine dello stato di Israele, che a meno di due anni dopo l’approvazione del piano di partizione si estendeva su un territorio quasi doppio rispetto a quello fissato dall’ONU e quanto restava del previsto stato palestinese fu annesso alla Transgiordania e all’Egitto.
La “soluzione dei due Stati”, la teoria per cui per risolvere il conflitto in Palestina sia necessaria la creazione negoziata di due stati separati per arabi ed ebrei, è considerata tutt’oggi più di una semplice ipotesi, e denota tutta la disperazione e il dramma di una convivenza impossibile e di una pace utopica.

Maria

 

Please rate this

George, The Best

george best

Il 25 novembre 2005 moriva George Best di professione calciatore. Nato a Belfast, Irlanda del Nord, il 22 maggio 1946. Prima di parlare del suo palmares basti menzionare il fatto che è stato l’ unico giocatore di calcio a cui è stato dedicato un aeroporto e che la zecca di stato del suo paese ne ha pubblicato le effigie su una banconota.  Fu individuato da McFarlane, allenatore delle riserve del Glantorane. Mentre allenava anche il Cregagh, la squadra del quartiere di George, fu detto a McFarlane che il piccolo ha iniziato a camminare a dieci mesi e a palleggiare a dodici. McFarlane, dopo averlo fatto giocare, lo segnalò a Bob Bishop, osservatore del Manchester United in Irlanda del Nord. Bishop organizzò una partita per testarne le qualità, George aveva quindici anni e gli fu tenuto nascosto che gli altri ragazzi ne avevano diciotto. Superò brillantemente la prova e Bishop contattò il suo amico Matt Busby, allenatore del Manchester United, dicendogli semplicemente di aver trovato un “genio”. Il Manchester United ha un tragico collegamento con il grande Torino, hanno subito entrambi un incidente aereo in cui morirono i loro giocatori. A differenza del Torino a Superga in cui morirono tutti, nell’ incidente a Monaco di Baviera per lo United si salvarono solo Bobby Charlton e Bill Foulkes oltre che al tecnico Matt Busby. In quell’ incidente Busby perse il suo pupillo Duncan Edwards che accolse allo United proprio in giovane età. Forse spinto anche dal carico emotivo di quelle vicende che si decise di conoscere il giovane George Best e ricomporre la squadra per andare a vincere la Coppa dei Campioni. George Best non era uno studente modello, pensava solo a giocare a calcio. Dopo alcune incertezze iniziali ecco che arrivò il suo momento il 14 settembre 1963. La maglia numero 7 fu sua, poco per volta iniziò la sua personale scalata. Velocità dribbling e tiro di destro e sinistro, era l’ unico giocatore a cui Busby risparmiava restrittive indicazioni di tattica, dal momento che George difficilmente le avrebbe accettate. A George piaceva dribblare quasi l’intera squadra avversaria, portiere compreso e andare in porta con il pallone. In quegli anni tutto stava cambiando, i Beatles e i Rolling Stones stavano rinnovando la musica, la moda e i media riscrivevano i codici sociali. George si inserì appieno in tutto questo turbinio e divenne il primo calciatore personaggio della storia del gioco. Era un bellissimo ragazzo ed ebbe relazioni con donne sposate e con migliaia di altre ragazze, protagonista di feste e bevute, troppe bevute. Macchine comprate con l’ ingordigia di un inesauribile collezionista. Nel frattempo continuava a segnare e a vincere. Poi dopo due campionati inglesi vinti, arrivò nel 1968 la Coppa dei Campioni e il pallone d’oro. Raggiunto quel livello iniziò la parabola discendente di George Best. La dissolutezza con cui visse gli fece pronunciare la sua frase simbolo ad un cameriere che gli recapitava l’ennesima Dom Perignon. In una stanza d’albergo mentre giaceva con la bella di turno George con in mano i soldi della mancia disse “ho speso soldi in alcool, donne e macchine, il resto l’ho sperperato”. Ormai il calcio non lo emozionava più come prima tant’è che si verificarono episodi come non il non presentarsi ad una partita con il Chelsea preferendo un weekend con la bella Sinead Cusack. Giocò, per modo di dire, fino all’ età di quarant’anni in tutto il mondo ma ormai essendo l’ ologramma di se stesso. Andò a letto con due miss mondo, si sposò due volte ed ebbe un figlio. Scappò da qualsiasi cosa che lo mettesse a disagio, come faceva da ragazzino, ma non riuscì mai a scappare dall’ alcool. Pochi giorni prima di andarsene, in ospedale, si fece fotografare ormai distrutto dicendo “per favore non morite come me”. Ha vissuto una vita che non si può vivere, in cui il suo talento emerse prepotente nel suo periodo migliore per poi essere mietuto da se stesso. La sua leggenda però garrisce nei cuori dei suoi tifosi per cui lui, nonostante tutto, rimarrà sempre The Best.

Ettore Poggi

Please rate this

La fine dell’ innocenza, 22 novembre 1963

kennedydallas

Texas, 22 novembre 1963. Venerdì. John Kennedy si trovava in Texas dal giorno prima. Era in atto un viaggio pre-elettorale che avrebbe toccato le città di Houston, San Antonio, Fort Worth e Dallas. Era una tappa politicamente complicata, gli Stati del sud non erano molto in sintonia con le riforme che Kennedy voleva attuare. Un mese prima un’ importante esponente del partito democratico Adlai Stevenson, che negli anni 50 contese invano la Casa Bianca ad Eisenhower, fu pesantemente attaccato, ricevendo anche degli sputi. Fort Worth, ore 7.30.  George Thomas, cameriere personale di Kennedy svegliò il presidente portandogli la colazione: caffé e brioches. John lesse il Dallas Morning News sulle cui pagine un giornalista sportivo lo invitava a parlare di vela se avesse voluto ricevere applausi. Se invece avesse toccato temi come Cuba, i diritti civili, tasse e Vietnam sarebbe stato molto probabile che qualcuno avrebbe sparato contro il brigantino presidenziale. In una pagina apposita, un articolo a pagamento, invece, poneva domande provocatorie in cui trasparivano accuse a Kennedy di filocomunismo. Queste cose infastidirono il presidente che non riuscì ad usare il suo solito tono ironico per sdrammatizzare. Kennedy si fece poi la doccia e la barba e indossò il busto in acciaio. Poi una camicia di Pierre Cardin e quindi un vestito grigio blu, le scarpe, di cui la sinistra aveva una suola ortopedica rialzata di sei millimetri. Durante quelle operazioni sentì la folla assiepata sotto la finestra. Uscì per salutare tutte quelle persone che lo attendevano nella piazza sottostante. In quegli attimi venne anche richiesta la signora Kennedy, ma John ebbe a dire “La signora Kennedy si sta preparando, le occorre un pò di tempo, ma poi avrà un aspetto migliore di tutti noi”. Seguì una colazione alla Camera di Commercio di Fort Worth in cui ribadì concetti come “non sarà facile ma noi siamo ancora la chiave di volta nell’arco della libertà e penso che continueremo a fare il nostro dovere”. Alla fine della cerimonia il presidente dell’ assemblea gli porse in dono un cappello da cowboy. Kennedy lo guardò e poi disse che lo avrebbe indossato alla Casa Bianca. Alle 9.30 Jacqueline Kennedy era pronta e tutta vestita di rosa raggiunse la hall del Texas Hotel. Parlando con il marito gli rivelò la paura di attentati durante i bagni di folla che piacevano tanto a John. Kennedy piuttosto seccato disse che se qualcuno avesse voluto ucciderlo poteva tranquillamente farlo da un palazzo con un fucile di precisione e che non si poteva fare nulla per evitare un episodio del genere.  Di li a poco presero l’ aereo che li avrebbe condotti a Dallas. Durante quel breve viaggio si parlò della strana atmosfera che regnava tra gli abitanti della città. John rivolse a tutto il suo staff delle domande per cercare di capire le cause. L’aereo atterrò all’ aeroporto Love Field alle 11.40. Appena sbarcato Kennedy attraversò il campo d’aviazione e andò incontro alla folla e salutò distribuendo strette di mano.  Poi salì con la moglie e il governatore Connelly sulla limousine  Lincoln Continental scoperta. Al seguito c’era una Cadillac con otto agenti dei servizi segreti, poi una terza auto con il vicepresidente Johnson con la moglie e il deputato Yarborough, un’ auto di scorta del vicepresidente, altre tre autovetture e tre pullman con autorità varie e giornalisti. Ai lati della Lincoln Continental con a bordo il presidente viaggiavano poliziotti di Dallas in motocicletta. Il corteo si diresse quindi verso il centro della città. L’ accoglienza fu molto composta e tiepida, non ostile. La coppia presidenziale salutò la folla tavolta più folta, talvolta più rada. In un punto Kennedy fece fermare la macchina e scese a salutare una fila di ragazzi. Poi il corteo riprese e si arrivò nei pressi della Dealey Plaza. L’auto presidenziale girò prima a destra e poi curvò a sinistra oltrepassando il Texas School Book Depository continuando verso un cavalcavia. L’auto rallentò a 18 chilometri orari. Alle 12.30  echeggiò una rapida sequenza di spari. Una pallottola lo colpì alla gola, una seconda alla schiena, una terza lo colpì alla testa aprendogli il cranio. Alcuni frammenti della sua testa volarono sul bagagliaio dell’ auto, e Jacqueline venne colta da un disperato quanto folle tentativo di recuperarli arrampicandosi sulla parte posteriore della vettura. Intanto l’auto riprese velocità e si diresse alla volta dell’ ospedale, il Parkland Hospital. Alle 13.30 ora del Texas il presidente John Fitzgerald Kennedy fu dichiarato deceduto. Quello stesso giorno sull’ Airforce One di ritorno a Washington con la salma del presidente, Lyndon Johnson pronunciò la formula di giuramento con cui divenne il 36 presidente degli Stati Uniti, al suo fianco c’era Jacqueline con il vestito rosa ancora macchiato di sangue del marito. John Kennedy amava più di tutte una poesia di Alan Seeger che la moglie spesso gli leggeva:

Ho un appuntamento con la morte

          Forse accadrà che mi prenda per mano

E mi conduca alla sua oscura terra

E mi chiuda gli occhi e mi soffochi il fiato…

Ma ho un appuntamento con la Morte

A mezzanotte in una città che avvampa

Quando la primavera torna a Nord quest’anno

Ed io fedele alla parola data

Non mancherò all’ appuntamento

 

Il fratello Robert alla convetion democratica del 1964 ricordò John citando Shakespeare

“Quando morirà

prendilo e spezzalo in tante piccole stelle,

Egli renderà la volta del cielo così bella

che il mondo interò amerà la notte

e non adorerà l’abbagliante sole”

La morte di Kennedy provocò un sentimento di smarrimento, per molti fu come se l’ America avesse perso l’innocenza di chi si era smarrito nell’ illusione della Nuova Frontiera. JFK rappresentava il cambiamento, un nuovo modo di vedere il mondo, impersonando l’ architetto che progettava un riposizionamento dei valori. La Storia registra uno stridente confronto tra la potenza della sua immagine e i risultati dei suoi mille giorni alla Casa Bianca. Lyndon Johnson fu colui che concretizzò tutto quello che aveva promesso JFK in fatto di riforme di diritti civili. Come poi testimoniò il fratello Robert con il suo impegno, Kennedy stava imparando dai propri errori, come la brutta pagina della Baia dei Porci, e la sua prematura fine non ha consentito di metterlo alla prova di un secondo mandato.

Ettore Poggi

Please rate this

RFK, Robert Francis Kennedy

Robert F. Kennedy

Il 20 novembre 1925 nacque a Brookline, Massachussets, Robert Francis Kennedy. Figlio di Joseph Patrick Kennedy e Rose Fitzgerald, fratello di John e Ted. Laureatosi in legge nel 1948. Sposato a Ethel Skakel dal 1950 e padre di undici figli. Iniziò a lavorare come avvocato e poi si dedicò definitivamente alla carriera politica. Nel 1952 venne nominato dal senatore McCarthy consulente nella Commissione per le investigazioni. Uscì e poi rientrò dall’incarico, ottenendo un ruolo di primo piano. Nel frattempo era già membro del partito democratico come i fratelli John e Ted. Era conosciuto come il più duro dei Kennedy dai modi molto decisi e da una certa inflessibilità. Tratti caratteriali che lo portarono a scontrarsi con Jimmy Hoffa, il capo del sindacato dei camionisti. Il quale non perse occasione di detestarlo pubblicamente, tradendo anche qualche legame torbido con la criminalità. Quando il padre designò il fratello John come il Kennedy da piazzare alla Casa Bianca, Robert dovette essere il gregario del capitano. La regia della campagna elettorale di John Kennedy nel 1960 era nelle mani di Robert. Nell’ombra riuscì a imporre la candidatura del fratello con fermezza e decisione. Dopo la vittoria gli fu affidato il ministero della giustizia. La successiva morte violenta di John lo gettò nello sconforto. Egli era il principe ereditario per la sua famiglia, parte del partito e quindi degli Usa. Johnson era “l’usurpatore”, ma il presidente texano aveva alleati tutti gli avversari di JFK che Robert aveva trasformato in nemici. E fu li che avvenne il cambiamento. Robert Kennedy viaggiò molto in Europa e negli Stati Uniti. Nella convention del 1964 dove venne ufficializzata la candidatura di Lyndon Johnson quando arrivò il momento del suo intervento ricevette un’ovazione incredibile che non venne nemmeno riservata a Johnson. Tuttavia prese la strada di candidarsi per il senato. Continuò la sua trasformazione da fantasma del fratello a Robert Kennedy. Si spinse nell’America più povera, capì prima di altri lo sbaglio della guerra del Vietnam. Formulò un programma in cui non bisognasse essere contro qualcuno ma a favore di un’ America diversa in cui l’uguaglianza regnasse. Divenne l’ ultima speranza dei neri dopo che fu ucciso martin Luther King. Nel frattempo era diventato anche il capo del clan dei Kennedy. Il padre riponeva molte speranze in lui. Iniziò la primavera del 1968 e Johnson macchiato dalla guerra in Vietnam annunciò che non si sarebbe più candidato alla Presidenza. Robert uscì allo scoperto e si presentò con la sua fiaccola per la guida di un paese ferito, desideroso di risvegliare il sogno americano. Per settimane la sua ascesa sembrò inarrestabile, poi la notte tra il 4 e il 5 giugno 1968 un arabo di nome Siran Siran gli sparò dopo un comizio all’hotel Ambassador di Los Angeles. Prima di perdere conoscenza chiese alla moglie “gli altri stanno bene?”. La frase conclusiva che riassume la personalità di Robert Kennedy è di George Bernard Shaw;

Alcuni uomini vedono le cose così come sono e dicono: “Perché?” Io sogno le cose come non sono mai state e dico: “Perché no?”.

Ettore Poggi

Please rate this