Il 23 settembre 1943 i tedeschi radunarono gli ufficiali e i sotto ufficiali italiani, tutti prigionieri, all’esterno del cortile della casetta rossa, a Cefalonia: a piccoli gruppi di cinque persone vennero fatti accedere all’interno del cortile e fucilati. Le esecuzioni durarono per tutto l’arco della giornata. Dall’esterno del cortile i soldati italiani, in attesa di essere fucilati, poterono solamente sentire il rumore delle mitragliatrici tedesche del plotone d’esecuzione. Fu verso sera che un ufficiale italiano chiese di poter conferire con gli ufficiali di pari grado tedeschi, chiedendo di far cessare le esecuzioni. Dopo alcuni minuti l’ufficiale tedesco uscì all’esterno del cortile comunicando ai prigionieri che l’alto comando tedesco aveva accolto la richiesta e concedeva loro salva la vita. I soldati italiani rimasti si guardarono, si abbracciarono e si contarono, erano rimasti in diciassette.
A seguito dell’armistizio chiesto dall’Italia e proclamato l’8 settembre 1943, i tedeschi dopo aver conquistato Cefalonia, occupata dal contingente italiano della divisione Acqui, uccisero tutti i prigionieri. Cinquemila soldati italiani vennero passati per le armi, fucilati e fatti annegare rinchiusi all’interno delle navi che vennero affondate; i loro corpi vennero bruciati, gettati nei fossi e pozzi.
La storia drammatica degli italiani a Cefalonia rappresentò la storia drammatica della seconda guerra mondiale condotta dall’Italia: scelte tattiche sbagliate, uno stato maggiore codardo, confusione nelle decisioni e un alto prezzo pagato dai soldati semplici.
L’intento iniziale stabilito dal duce, Benito Mussolini, fu di “spezzare le reni alla Grecia”, il fine inglorioso e nefasto fu che da Cefalonia di cinquemila soldati, ne tornarono diciassette.
Roberto