L’ultimo weekend di Ayrton

ayrton-senna

Ayrton Senna arrivò a Imola il giovedì 28 aprile 1994. Tre giorni prima del fatale gran premio di Imola, 1 maggio 1994. Quel giorno presentò una bicicletta che portava il suo nome, gli affari stavano prendendo una parte consistente del suo tempo. Poi si trasferì all’autodromo per le prove del gran premio. Quell’anno Senna non era soddisfatto della sua auto, la Williams. L’anno prima la Williams aveva portato al trionfo il suo eterno rivale Alain Prost che poi si ritirò dalle corse. All’interno del circus Ayrton divenne il numero uno, il favorito. Fino ad allora aveva vinto tre titoli mondiali, 65 pole position record di allora , 41 vittorie. L’obiettivo era conquistare il quarto mondiale con la macchina più forte. L’inzio del mondiale 1994 fu però nel segno di un giovane Michael Schumacher. Ayrton non finì mai una gara prima del gran premio di Imola. C’era molta pressione in lui. Nel primo giorno di prove, Ayrton stava commentando in presa diretta un giro di pista per un iniziativa della televisione francese. In quel momento in collegamento audio gli passarono Prost e gli disse “un saluto speciale al mio caro amico Alain, ci manchi!”. Fu un uscita sorprendente vista l’acerrima rivalità tra i due. Nel giro di poche ore iniziò un weekend da incubo. Barrichello volò con la sua monoposto contro un muretto, per fortuna si salvò. Ayrton andò immediatamente a sincerarsi delle condizioni del suo amico pilota. I dottori raccontarono che entrò di nascosto all’ospedale scavalcando una cancellata di due metri. Nella seconda giornata di prove si verificò un secondo e più nefasto incidente, che portò alla morte di Ratzenberger, pilota austriaco coetaneo di Ayrton, sconosciuto, era agli esordi. Ayrton era affranto, scosso. Due ore dopo andò in ospedale, capì che per Ratzenberger era finita. Non parlò, uscì dall’ospedale per rientrare ai box e lo videro piangere. L’indomani, il giorno della gara, 1 maggio, Ayrton era molto serio, non si comportò nella maniera solita. Sembrava estranearsi dalla gara imminente. Subito dopo la partenza una collisione tra due macchine interruppe la gara, alcuni detriti colpirono degli spettatori sulle tribune. Si ripartì dietro la safety car. Al sesto giro alla curva del tamburello Ayrton Senna con la sua Williams finì contro il muretto. Passarono Schumacher e Berger. Un elicotterò dopo pochi minuti fu fatto atterrare in pista per portare il pilota brasiliano in ospedale. La gara continuò, ma accadde un nuovo incidente : una macchina uscendo dai box perse una ruota che investì e ferì tre meccanici. Il gran premio fu vinto da Schumacher, secondo Larini, terzo Hakkinen. Ayrton morì nel tardo pomeriggio. La causa fu fatta risalire al piantone dello sterzo che si spezzò e provocò lo sbandamento con il seguente schianto contro il muro. Nell’impatto un pezzo di metallo delle sospensioni gli perforò il casco entrandogli nel cranio. La morte di Ayrton Senna portò ad un cambiamento epocale nella Formula1. La sicurezza divenne prioritaria rispetto alla prestazione sportiva. A San Paolo dove venne sepellito sulla lapide c’è scritto “niente può allontarmi dall’amore di Dio”. Per capire la dimensione umana di Ayrton Senna invece occorre menzionare un ricordo della sua infanzia. Ayrton era di famiglia benestante, un insegnante notò che era tutto mingherlino e che durante la ricreazione non mangiava mai come i suoi compagni. Allora si incuriosì e convocò la madre, la quale disse che tutte le mattine consegnava la merenda al piccolo Ayrton. Quindi chiamarono Ayrton che disse “quando vengo a scuola tutte le mattine passo davanti a quei bambini che non hanno niente e allora regalo loro la mia merendina”.  L’attuale fondazione che porta il suo nome si adopera proprio per quei bambini che Ayrton proteggeva e amava.

Ettore Poggi

Please rate this

Il file rouge: da Portella della Ginestra a Pio La Torre

Il 1 maggio 1947 presso la località Portella della Ginestra vengono barbaramente trucidati un gruppo di lavoratori, donne e uomini, riunitisi per protestare contro la mancata assegnazione delle terre. Era in corso, infatti, negli anni del dopo guerra in Sicilia una dura lotta tra i nullatenenti, e i grandi latifondisti: i primi chiedevano l’assegnazione delle terre feudali, i secondi pretendevano di mantenere le terre e di sfruttare così i nullatenenti; tra di loro si interponevano ne figure dei gabellini: coloro che per conto dei grandi latifondisti ricercavano la forza lavoro tra i nullatenenti in cambio di un tozzo di pazze.
La storia non ha appurato chi fu o chi furono realmente i mandanti della strage, ma un’affermazione la possiamo evidenziare con la quasi assoluta certezza: il bandito Giuliano non fu il mandante di quella strage. Ma come proprio lui che era dalla parte dei poveri, proprio lui che aveva aderito al movimento separatista, proprio lui che (a detta degli abitanti di Monte Lepre) rubava ai ricchi per dare ai poveri, proprio lui massacra i suoi stessi con paesani. Inserire la Sicilia in un contesto internazionale e in un gioco più grande di lei, in una lotta tra Stati Uniti e comunisti appare uno scenario azzardato, ma non poi così tanto improbabile, se di mezzo ci caliamo in Italia la Democrazia Cristiana. La D.C: era situata tra due fuochi: tra la necessità di portare avanti il dialogo con gli Stati Uniti, i grandi promotori e “manovratori” del referendum della vittoria della Repubblica a scapito della Monarchia, e i comunisti, i quali in Italia erano in forte aumento in quanto i loro ideali avevano un forte appeal sulla popolazione italiana, la quale nel dopo guerra era ridotta in povertà. Per la D.C. trovatasi a fronteggiare l’affare “Portella” fu facile attribuire la colpa a Giuliano, pericoloso e inafferrabile bandito. Non furono svolte indagini, interrogatori e non ci furono testimoni. Ma Portella per uno strano gioco di rimandi storici torna sempre d’attualità: il massacro di poveri innocenti riemerge sempre con maggiore forza. Accade che a debellarlo dalla memoria storica italiana ci proviamo nel 1982, il 30 aprile assassinando barbaramente Pio La Torre. Di questa strage mi è rimasto in mente il barbaro omicidio: una raffica di colpi talmente potente da far sbalzare il corpo del politico italiano sul sedile dell’autista, mentre il suo piede sfondava e rimaneva penzolante dal finestrino. La mafia uccide Pio La Torre. Dal carcere durante un’udienza Salvatore Riina sbotta: “Io.. a quelli… con Pio… il favore ce l’ho fatto..” Ora aspettare che Riina ci spieghi in modo dettagliato quanto avvenuto appare inverosimile, a meno che, come sta accadendo in questi ultimi mesi, egli non voglia renderci partecipe delle sue mirabolanti avventure di unico big boss.
Da Portella della Ginestra a Pio La Torre passa la memoria storica italia di fatti mafiosi, e non, per i quali molto probabilmente non si otterrà mai giustizia. Da un punto dobbiamo partire e che ci ha ricordato Borsellino con la strage di Capaci: “non posso dire che sia stata la mafia e soltanto la mafia, ma la mafia è stata comunque”. Commuove ancora ascoltare le testimonianze dal vivo di coloro che, oramai novantenni, dicono che loro a Portella ci sono stati e ci tornerebbero, ci coloro che hanno collaborato con Pio La Torre e ogni giorno portano avanti quella lotta per uno Stato più giusto. Ricordare “Portella e ricordare Pio” vuol dire ricordare la nostra memoria storica di italiani.11174873_954726651213414_3978589387622859147_n 11206062_954726844546728_3346271647030741520_n

Please rate this

Il disastro alla baia dei Porci

baia pigs

Aprile 1961. All’una di notte un gruppo di sommozzatori approdarono sulla spiaggia della Baia dei Porci. Di lì a poco sarebbero iniziate le operazioni di segnalazione alle navi le posizioni per lo sbarco.  Sbarco che  avrebbe contato 1.453 uomini esuli cubani con l”obiettivo di  duellare con la milizia ordinaria cubana e convincere la popolazione per rovesciare il governo dell’ Avana. Un governo di stampo comunista guidato da Fidel Castro. Una camionetta in ricognizione scambiò i somozzatori per dei pescatori e non intervenne. I sommozzatori impauriti fecerò esplodere dei colpi di arma da fuoco e si scatenò la bagarre. Ebbe immediatamente inizio lo sbarco. Le truppe filoamericane trovarano ad aspettarli l’esercito cubano. Caddero al suolo più di 250 persone suoi due fronti. Tutti gli altri vennero arrestati. Lo sbarco registrò un epilogo tragico. Krusciov presidente dell’URSS il giorno seguente minacciò l’intervento dell’esercito La Cia diretta da Allen Dulles aveva preparato un piano già dai tempi dell’amministrazione Eisenhower. Kennedy lo ereditò e lo avallò controvoglia, tant’è che non volle includere l’esercito americano nell’operazione. Il risultato fu una delle più catastrofiche e imbarazzanti operazioni militaresche nel continente americano. Si acuirono le distanze tra Washington e Mosca e si preparò inevitabilmente il terreno per la crisi dei missili dell’anno seguente.

Ettore Poggi

Please rate this

Robert Kennedy raccoglie la torcia di MLK

martin luther king

Alle 18.01 del 4 aprile 1968 James Earl Ray aveva puntato il suo fucile di precisione sul balcone della stanza 306 del Lorraine Motel. Siamo in  Mulberry Street a Memphis. In quegli istanti si affacciò Martin Luther King. Ray esplose un colpo. King colpito alla testa cadde. Morì un ora e mezza dopo. Finì in quel momento la parabola terrena di Martin Luther King. Nelle ore successive si scatenò l’inferno per le strade d’America. Robert Kennedy era in piena campagna elettorale per le primarie, a Indianapolis. Fu egli stesso a informare chi era accorso per ascoltarlo. Improvvisò un discorso sull’ onda emotiva che lo travolse. Salì su un furgone e pronunciò le seguenti parole:

“Ho delle notizie molto tristi per tutti voi. E, credo, notizie tristi, per tutti i nostri concittadini e per le persone amanti della pace in tutto il mondo.

Ed esse sono che Martin Luther King è stato colpito e ucciso stasera a Memphis, in Tennessee.

Martin Luther King ha dedicato la sua vita all’amore e alla giustizia tra gli esseri umani, ed è morto nel portare avanti questa lotta.
In questa giornata difficile, in questo momento difficile per gli Stati Uniti è forse il caso di chiederci che tipo di nazione siamo, e in che direzione vogliamo procedere.
Per quelli di voi che sono neri, visto che sembra evidente che fossero bianchi i responsabili [dell'assassinio], potreste ritrovarvi pieni di amarezza, di odio, di desiderio di vendetta.
Potremmo andare in quella direzione come paese, verso una spaccatura ancora maggiore, i neri con i neri, i bianchi con i bianchi, ricolmi di odio gli uni per gli altri.
Oppure possiamo fare uno sforzo, come ha fatto Martin Luther King, per capire e per comprendere e rimpiazzare quella violenza, quella macchia di sangue che ha coperto il nostro paese, con uno sforzo per capire, con compassione e amore.
Per chi di voi è nero, ed è tentato di lasciarsi andare all’odio e alla diffidenza verso i bianchi, per l’ingiustizia di questo gesto, vi posso solo dire che io stesso posso sentire nel mio cuore quel tipo di sentimenti: qualcuno nella mia famiglia è stato ucciso, e anche lui per mano di un bianco.
Ma ora dobbiamo fare uno sforzo negli Stati Uniti, dobbiamo fare uno sforzo per capire, per superare queste ore difficili.
Il mio poeta preferito è Eschilo. Egli scrisse:
“Anche nel sonno il dolore che non dimentica cade goccia dopo goccia sul nostro cuore, finché nella nostra stessa disperazione, senza che lo vogliamo, ci perviene la saggezza, attraverso la maestosa grazia di Dio.”
Quello di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti, non è divisione.
Quello di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti, non è odio.
Quello di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti, non è violenza e rifiuto della legge, ma è amore, saggezza, e compassione gli uni verso gli altri.
E un senso di giustizia per coloro che ancora soffrono nel nostro paese, sia che essi siano bianchi o che siano neri.
Possiamo far bene in questo paese. Avremo tempi difficili. Ne abbiamo avuti in passato ma ne avremo in futuro.
Non è la fine della violenza. Non è la fine del rifiuto della legge. Non è la fine del disordine. Ma la grande maggioranza dei bianchi in questo paese e la grande maggioranza dei neri in questo paese vuole vivere insieme,
vuole migliorare la qualità della nostra vita, e vuole giustiza per tutti gli esseri umani che dimorano nella nostra terra.
Dedichiamoci dunque a ciò che i greci definirono in questo modo tanti anni fa: a domare la selvaggità dell’uomo e rendere gentile la vita di questo mondo.

Dedichiamoci a questo. E diciamo una preghiera per il nostro paese e per il nostro popolo. Grazie molte”.

Cit. della traduzione da raistoria.it

Ettore Poggi

Please rate this

La vergogna di My Lai

mylai

16 marzo 1968. Vietnam. La Compagnia Charlie, del 1° Battaglione, 11a Brigata, 23a divisione di Fanteria Leggera, conosciuta come Americal Division agli ordini del tenente William Calley entrava in una delle quatto frazioni del villaggio vietnamita di Son MyQuella missione era denominata Search and Destroy, cerca e distruggi. La frazione che fece da scenario di questa vicenda era My Lai situata a 840 km a nord di Saigon. Il motivo principale per cui il tenente Calley e i suoi uomini entrarono nel villaggio di My Lai fu quello di vendicare un attacco vietcong precedente, una rappresaglia. Quel mattino, però, a My Lai non ci fu nessun vietcong, solo vecchi, donne e bambini. I soldati americani massacrarono chiunque gli si parasse davanti, animali compresi. Violentarono le donne e le ammazzarono, anche quelle incinte. I pochissimi superstiti raccontarono che ad una donna incinta fu aperto il ventre, strappato il feto e lanciato in una sterpaglia. Spararono ai bambini alle madri e ai loro nonni. Lanciarono bombe a mano nelle capanne, dettero fuoco alle case e uccisero il bestiame li attorno. Una furia spietata fermata soltanto dall’ arrivo di un elicottero dell’ esercito Usa in ricognizione, che atterrò e si frappose tra i militari Usa e gli ultimi superstiti del villaggio vietnamita. Il pilota sottufficiale Hugh Thompson Jr., affrontò i capi delle truppe americane e minacciò che avrebbe aperto il fuoco su di loro se non si fossero fermati. Anche gli altri due membri dell’equipaggio dell’elicottero – Lawrence Colburn e Glenn Andreotta – puntarono le loro armi pesanti contro i commilitoni che si resero autori del massacro. Il report ufficiale parlò di 90 vietcong assassinati e zero civili. Ma la verità venne faticosamente a galla: le vittime furono circa 347 civili. Il reporter Seymour Hersh portò il massacro alla conoscenza del grande pubblico nel 1969. Un certo Colin Powell, allora giovane maggiore, venne incaricato di fare luce sulla vicenda, ma dal suo lavoro ne venne fuori una candeggiatura delle notizie e una minimizzazione dei fatti. Venne imbastito un processo nel quale solo il tenente William Calley fu dichiarato colpevole. Il suo superiore Ernest Medina da cui Calley disse di aver preso ordini fu prosciolto. Calley fu il solo condannato, e per lui ci fu la pena dell’ ergastolo tramite lavori forzati. Alcuni giorni dopo il presidente Nixon, con “infinita clemenza”, ordinò il suo rilascio dalla prigione. Calley scontò solo 3 anni e mezzo di domiciliari. Venne così chiusa ufficialmente una vergognosa vicenda di guerra, che ancora oggi su più livelli ci fa sentire tanta puzza di bruciato.

Ettore Poggi

Please rate this