La First Lady del mondo: Eleanor Roosevelt

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Proveniente da un ricca famiglia della borghesia newyorkese, nipote del ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti Theodor Roosevelt, Eleanor era soprannominata in famiglia “il brutto anatroccolo”, a causa del suo aspetto fisico poco aggraziato.
Conobbe Franklin ad una festa di Natale in famiglia: i due cominciarono a frequentarsi dal 1902, e si sposarono il 17 marzo 1905.
Il matrimonio tra i due non fu felice, soprattutto a causa dell’invadenza della suocera di Eleanor, contraria a quella unione, e ai numerosi tradimenti compiuti dai due coniugi. Malgrado questo, Eleanor sostenne per tutta la vita la carriera del marito e la sua ascesa politica. Sia durante i difficili anni del New Deal, sia nelle prese di posizione durante la II guerra mondiale, non solo la first lady fu accanto al presidente, ma diede spesso il proprio personale contributo nelle decisioni da prendere e nelle strategie attuate.
Eleanor fu particolarmente attenta a cause quali i diritti civili e i diritti degli afroamericani. Spesso si trovava a dover sostituire il marito, malato di poliomielite e paralizzato alle gambe, in visite ufficiali e in particolar modo al fronte, dove supportava moralmente le truppe e le attività della Croce Rossa. Divenne “le gambe e le orecchie” del presidente.
Dopo la morte di Franklin nel 1945, Eleanor non si ritirò a vita privata: il successore alla Casa Bianca, Truman, scelse lei come rappresentante degli Stati Uniti alla conferenza per i Diritti Umani presso la Commissione delle Nazioni Unite. La Roosevelt occupò questa posizione fino al 1952, e si guadagnò l’epiteto di “First Lady of the World”.
Dopo la seconda guerra mondiale, ricoprì un ruolo cruciale per la stesura e l’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, da lei definita nel famoso discorso del 28 settembre 1948 la “Magna Charta di tutta l’umanità”.
Ancora, Eleanor fu scelta da John F. Kennedy negli anni ’60 per presiedere la Commissione presidenziale sulla condizione delle donne.
Eleanor Roosevelt è tutt’oggi un personaggio venerato negli Stati Uniti e molte first ladies che l’hanno succeduta hanno dichiarato di ispirarsi alla sua figura; di certo Eleanor rifiutò il tradizionale ruolo di semplice “padrona di casa” e intraprese per la prima volta iniziative politiche e sociali di grande rilievo e con successo. Di certo Eleanor non verrà ricordata soltanto per essere stata la moglie di un presidente.

Maria

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La mafia non uccide solo d’estate

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Il 6 gennaio 1980 l’organizzazione mafiosa Cosa nostra uccide, a Palermo, il Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella. Il politico siciliano, sin dalla gioventù, dedica la propria vita alla politica cercando di risolvere e sanare i problemi presenti in Sicilia. Dopo un trascorso nelle file dell’Azione Cattolica, Piersanti entra nelle file della Democrazia Cristiana, diventandone uno dei maggiori esponenti, condividendo la linea guida fissata da Aldo Moro al partito. L’atteggiamento di uomo politico franco e trasparente gli valgono la nomina prima a consigliere comunale di Palermo e poi,  nel 1967, a deputato all’assemblea regionale siciliana. L’attività che svolge prima come deputato e poi come assessore alla regione lo candidano a futuro presidente, carica che ricopre a partire dal 1978. Uno degli obiettivi principale che Piersanti inserisce nella sua agenda politica di governo della regione è la lotta alla mafia: proposito che esterna praticamente in ogni conferenza e incontro pubblico.  Il finire degli anni Settanta e l’inizio anni Ottanta vedono in seno a Cosa nostra profonde trasformazioni, non solo riguardo all’entrata in scena a Palermo del clan mafioso dei Corleonesi che minano le basi dell’equilibrio creatosi interno all’organizzazione, ma vedono aprirsi la strada a una nuova forma di ingente guadagno illecito, quale il traffico di droga: non a caso la Sicilia ne diventerà uno dei maggiori centri di lavorazione e raffinamento a livello europeo. L’omicidio di Piersanti Mattarella si inserisce quindi nell’azione condotta da Cosa nostra contro tutti coloro i quali, appartenenti alla politica e alle forze dell’ordine, si contrapponevano in modo netto ad essa.

Questo il ricordo dell’attuale Presidente del Senato, Piero Grasso:

“Piersanti Mattarella stava provando a realizzare un nuovo progetto politico-amministrativo, un’autentica rivoluzione. La sua politica di radicale moralizzazione della vita pubblica, secondo lo slogan che la Sicilia doveva mostrarsi ‘con le carte in regola’, aveva turbato il sistema degli appalti pubblici con gesti clamorosi, mai attuati nell’isola”

Roberto Rossetti

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Si accende la televisione

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Domenica 03 gennaio 1954 alle ore 11 venivano trasmesse, per la prima volta, le trasmissioni RAI. Venne inaugurato il Programma Nazionale o Primo Programma, ovvero l’attuale canale Rai 1. Il primo programma dopo la cerimonia inaugurale andò in onda alle 14:30, e fu “Arrivi e Partenze” condotto dall’allora giovanissimo presentatore italo americano Mike Bongiorno.
Le trasmissioni inizialmente duravano poche ore al giorno, e naturalmente non tutti poterono permettersi di acquistare un apparecchio televisivo fin da subito. Il costo di una televisione all’epoca equivaleva fino a cinque volte il reddito medio pro capite annuo, ed era quindi comune, la sera, ritrovarsi a gruppi di persone al bar o a casa di amici per vedere insieme il programma preferito, tra tutti il quiz “Lascia o Raddoppia” nato nel ’55.
Nel 1954 gli abbonati alla TV erano 24 mila persone: questo numero crebbe velocemente, e già nel 1965 erano 6 milioni le persone che disponevano di una televisione in casa.
Che cosa ha rappresentato la televisione per gli italiani in quel periodo? Sicuramente una finestra sul mondo, la prima possibilità di conoscere realtà diverse dalla propria e cose che non si erano neppure mai immaginate. Ma ancora, la televisione ha rappresentato un fenomeno sociale di portata storica, un cambio radicale nelle abitudini degli italiani, tale per cui non è semplice definire se di questi cambiamenti la televisione sia stata causa o effetto.
Si afferma che sia stata la televisione ad aver compiuto la vera unità d’Italia, un secolo dopo l’unità politica, ed almeno a livello linguistico questo è sicuramente vero. Tuttavia, oggi, rimane il dubbio che la televisione, così come gli altri innumerevoli strumenti a nostra disposizione per la comunicazione e la connessione, abbiano invece contribuito nella società contemporanea all’isolamento delle persone e al fenomeno dell’individualismo.

Maria

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Ciao Campionissimo

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“Un uomo solo è al comando della corsa, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”

Così Mario Ferretti apre la radiocronaca della terzultima tappa del giro d’Italia del 1949, la Cuneo – Pinerolo. Quel giorno Fausto Coppi percorrerà in solitaria 192 km scalando cinque valichi alpini: il Colle della Maddalena, il Colle de Vars, il Col D’Izoard, il Monginevro e Sestriere. Quel giorno il ciclista piemontese vince il suo giro d’Italia,a entra nella leggenda. Da quel giorno sarà il grande Fausto, il campionissimo. Quando una persona entra nella storia del mito i contorni dello spazio e del tempo si sfumano, allora non contano più i titoli, la maglia rosa, la magia gialla, conta solo più l’immagine di un uomo che solo, nella nebbia, scala la sua montagna. Che quel corridore, nella nebbia, fosse proprio Fausto lo si poteva percepire da quel respiro diverso da tutti gli altri corridori, prodotto da quella cassa toracica deformata che gli garantiva una maggiore ossigenazione e poi da quel naso così arcigno durante i massimi sforzi che i fumetti rappresentavano meglio della realtà.Solo, Coppi scala una montagna dopo l’altra nel ricordo della fatica del giovane campione cresciuto da Biagio Cavanna, da quell’allenatore al quale la natura aveva tolto il dono della vista, ma concesso un tatto eccezionale e grazie a quelle mani, tastando le gambe di Coppi, ne scoprì il campione. Coppi è oggi un’emozione, la stessa emozione di quell’Italia del dopo guerra che, finalmente, grazie al ciclismo poteva tornare a sognare in grande, a vincere, grazie a loro. Coppi e Bartali, Fausto e Gino. Sempre loro, sempre davanti, sempre primi, sempre amici, sempre rivali, sempre insieme sulle montagne che contano. Bartali, ormai anziano, disse che il buon dio gli permetteva di continuare a vivere solo per continuare a ricordare al mondo chi fosse stato Fausto Coppi. Gino ce lo racconta come un uomo schivo, riservato, non amante della vita mondana, dei riflettori, un uomo dalle cui mani si poteva riconoscere il suo passato e la sua famiglia da contadino, un uomo che ha sempre lottato, ogni metro di ogni tappa di ogni giro. Solo, Coppi scala una montagna dopo l’altra, in un altro ricordo, quella della fine della guerra, quando in sella ad una vecchia bicicletta risalì l’Italia per tornare a casa, di quando un camion gli deformò la ruota della bici e lui la raddrizzò a forza di colpi di pietra, ci risalì in sella e tornò a casa. Solo, Coppi scala una montagna dopo l’altra, nel ricordo dell’onta di quelle leggi che hanno punito il suo adulterio e l’amore per la “dama bianca”. Solo, Coppi scala una montagna dopo l’altra, nel nostro ricordo che possiamo solo alzarci da quel paracarro nel vedere arrivare quella maglia bianco-celeste” ed urlare “Vai Fausto”.

Roberto Rossetti

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Morire per un’idea: Willy Jervis

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Guglielmo Jervis, conosciuto più semplicemente come “Willy”, nacque a Napoli nel 1901 da una famiglia di naviganti inglesi. Laureato in ingegneria nel 1926, dopo alcuni anni nell’esercito venne assunto dall’azienda italiana Olivetti. Fu, da sempre, un esponente attivo della comunità valdese e grande appassionato di alpinismo. Dopo l’08 settembre 1943, giorno dell’Armistizio, Willy entrò a far parte del movimento partigiano nella zona di Ivrea, dove poté sfruttare sia la conoscenza dell’inglese, intrattenendo rapporti con gli alleati, sia le sue doti di alpinista. Dato il clima di sospetto nei confronti di tutti coloro i quali non si erano schierati apertamente a favore del fascismo, su consiglio del sig. Olivetti, Jervis si trasferì in val Pellice, in provincia di Torino, dove tutt’oggi risiede la più grande comunità valdese d’Italia e dove Willy poté proseguire le sue attività nella Resistenza.
L’11 marzo 1944 Willy fu arrestato, casualmente, dalle S.S. nei pressi del ponte di Bibiana: i militari capirono subito di aver tra le mani un esponente importante della lotta partigiana, a causa del materiale di sabotaggio e dei documenti militari che Willy aveva con sé. Una volta tradotto in carcere lo esposero ad atroci torture. Nonostante le sofferenze, Jervis non lasciò trapelare alcun tipo di informazione, che avrebbe potuto compromettere i compagni e la lotta partigiana. E’ doveroso ricordare che a quel tempo Willy era già marito di Lucilla e padre di tre figli piccoli, Giovanni, Letizia e Paola, fatto che rende ancora più stoico il comportamento dell’uomo.
In attesa dell’ordine di fucilazione, per cinque mesi Willy visse sospeso tra la vita e la morte, in bilico tra torture mostruose ed imminenti esecuzioni. Durante questo periodo, Jervis, grazie ad una guardia carceraria compiacente, intrattenne un carteggio segreto con la moglie. Le lettere sono state raccolte, oggi, in un libro edito dal titolo “Un filo tenace”. Ne riportiamo alcune righe, le quali rappresentano la fotografia di quei momenti di pena e dolore:

Temo sia suonata la mia ultima ora. La fede non mi abbandona e l’ultimo mio pensiero sarà per voi miei cari! Mi hanno preso con altri, messo al muro, legate le mani. Poi mi hanno messo in cella in attesa. Non mi faccio illusione e prego Dio dia a me forza a te consolazione. Sono tranquillo per me ma quale angoscia per voi! Quante cose vorrei dirti. Tu sai il mio amore per te e i bimbi. Dio vi benedica e vi guardi! Ci troveremo certo di là”.

Nella notte tra il 4 e il 5 agosto Willy ed altri quattro partigiani furono trasportati, dai soldati tedeschi, nella piazza di Villar Pellice e fucilati: il cadavere di Jervis fu legato ad un carro e trascinato per le strade del paese; infine, la salma venne impiccata ad un albero e lì lasciata per giorni, per pubblico ludibrio. L’azione nazista doveva rappresentare un monito per i paesani ad interrompere, immediatamente, ogni azione e forma di resistenza. Ciò non accadde, anzi l’esempio di Jervis convinse i partigiani ad insistere nella resistenza, supportando attivamente gli alleati.
Le ultime parole di Jervis, trovate incise con uno spillo nella Bibbia, unico testo di conforto durante i patimenti in carcere e proprio per questo prova del riconoscimento del cadavere, sono state: “Non piangetemi, non chiamatemi povero; muoio per aver servito un’idea”.
Alla memoria di Guglielmo Jervis sono oggi dedicati due rifugi alpini, di cui uno in alta val Pellice. Willy Jervis è stato insignito della medaglia d’oro al valore militare. Di lui, oggi, rimane una flebile traccia nei testi che trattano della Resistenza, troppo poco per una persona la cui esistenza è stata dedita a ideali quali libertà, difesa e patria e per i quali ha sacrificato la propria vita.

Maria

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