John Fitzgerald kennedy, il giorno che divenne Presidente

Kennedy

Martedì 8 novembre 1960 John kennedy si trovava a Boston. Era il giorno delle elezioni e lui era il candidato del Partito Democratico. Il suo sfidante era il repubblicano Richard Nixon. Kennedy si alzò alle 7.30 si infilò il busto ortopedico e ingerì due compresse di anfetamine. Egli soffriva da tempo di terribili mal di schiena dovuti a due gravi lesioni, una riportata da ragazzo in una partita di football e la seconda in un’azione di guerra nella Seconda Guerra Mondiale. La moglie Jacqueline, sposata nel 1953, era incinta di otto mesi del loro secondo figlio e lo raggiunse a Boston per andare a votare. Dopo aver votato fecero ritorno presso il quartier generale della famiglia kennedy a Hyannis Port, precisamente presso l’ abitazione di Robert Kennedy. I risultati elettorali vennero attesi nella notte tra l’ 8 e il 9. Nella famiglia Kennedy e nei collaboratori serpeggiava molta agitazione. John Kennedy ostentava un certo distacco e si mostrava silenzioso. Verso le tre del mattino fu chiaro che gli scrutinii vertevano a suo favore con 261 voti elettorali, ne mancavano 8 per la vittoria. A Los Angeles risiedeva il quartier generale di Nixon, presso l’ Hotel Ambassador. Il candidato repubblicano apparì in televisione molto deluso e sua moglie Pat in lacrime. Pierre Saliger, il portavoce di Kennedy, invitò John a presentarsi ai media ma ricevette un solenne rifiuto. John stava mangiando un panino, era troppo tardi per lui e se ne andò a dormire. Il fratello Robert invece rimase sveglio tutta la notte a controllare i vari responsi di quelle elezioni. Kennedy vinse con 303 voti elettorali contro i 210 di Nixon che nel sistema americano fu una vittoria di stretta misura in termini di voti popolari, il margine fu il più risicato della storia fino alle elezioni del 2000. Nel 1960 quel divario fu di 112.881 voti. Kennedy si svegliò alle 9 del 9 novembre 1960, fece colazione con la moglie e la figlia Caroline e andò a fare una passeggiata sulla spiaggia. Al suo ritorno gli arrivò la notizia che fu eletto Presidente.

Ettore Poggi

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La Grande Guerra

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Dalle macerie della disfatta di Caporetto nasce la riscossa italiana: vinciamo a Vittorio Veneto, liberiamo Trento e Trieste, l’Austria-Ungheria firma l’armistizio, il 4 novembre la guerra è finita e pochi giorni dopo costringiamo la Germania a sottoscrivere l’armistizio. Il giovanissimo stato italiano, mal organizzato e ancor meno equipaggiato, vince la prima guerra mondiale. I fattori di questo successo si possono trovare non certo nella preparazione del conflitto bellico, come al solito sottovalutato dal comando generale; non certo nella forza di uno stato nato da appena cinquant’anni, ma dilaniato da conflitti interni: si era fatta l’Italia, ma non ancora gli italiani; non certo nelle risorse politico-economiche interne del paese: l’Italia essendo sempre stata alla mercé dei conquistatori stranieri fu sempre più saccheggiata che condotta verso il progresso. Rimane allora da considerare quel fattore umano, tanto presente nei versi delle canzoni che rievocano la prima guerra mondiale. Parole come sacrificio, umiltà, Piave, vittoria, Italia erano sulla bocca di tutti i soldati che si apprestavano ad andare al fronte, anche di quei ragazzi del ’99 (1899 si intende), che dopo la disfatta di Caporetto, a soli quindici-sedici anni furono arruolati nelle fila dell’esercito. Furono quelle idee e quei sentimenti nati nell’Ottocento da quei moti rivoluzionari, che portarono l’Italia a costituirsi Stato, a spingere quegli stessi italiani a difendere quella stessa giovane patria. Il 4 novembre 1921, raccolto il corpo di un soldato deceduto durante il primo conflitto mondiale e di cui non si conoscevano le generalità, venne eretto a Roma il monumento al Milite Ignoto e venne deposta al suo interno la bara di questo soldato. L’intento fu quello di mantenere viva la memoria di quanti diedero la vita per difendere la patria, ma oggi non ce lo ricordiamo più.

 Roberto

La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuna divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d’armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, dell’VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.

Armando Diaz – Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12

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La Farfalla Granata vola più in alto

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Arrigo Sacchi ha definito il calcio come la cosa più importante delle cose meno importanti. Questo sport riesce a stimolare le emozioni più sanguigne e razionalmente inspiegabili ma in quanto tali sono sincere, tangibili nell’ animo umano. C’è una squadra che più di tutte è il catalogo emotivo più vasto e profondo senza eguali nel mondo e nella storia del gioco, il Torino. Ad esso è legata una delle storie più delicate e struggenti che valicano i confini granata per depositarsi nell’ anima di tutti, ovvero nel senza-tempo. Il protagonista è un ragazzo di nome Gigi Meroni, nato il 24 febbraio 1943 e morto a 24 anni il 15 ottobre 1967. Aveva fatto il disegnatore di cravatte e si dilettava con la pittura, era anche molto apprezzato. Ma la sua popolarità era dovuta principalmente al calcio. Giocava come ala destra, la numero 7. Cresciuto calcisticamente nelle giovanili del Como, fu acquistato dal Genoa dove si impose come giovane dal futuro assicurato in seria A. Nel 1964 fu acquistato per una cifra esorbitante dal Torino allenato da Nereo Rocco. Furono spesi 300 milioni di lire. Non perse tempo nel dimostrare il suo valore sul campo. Il suo modo di stare in campo era l’ essenza del gioco puro, fantasia, dribbling,  tiro pennellato. Portava i capelli lunghi per l’ epoca e questo contrastò con il conformismo degli allenatori come Fabbri. Amava dipingere su tela e disegnare i propri eccentrici abiti. Il suo senso di anticonformismo e ribellione lo portò a presentarsi persino con una gallina al guinzaglio. Aveva un modo di fare che conquistava, tutti gli volevano bene. Si innamorò ricambiato di una bellissima ragazza di origine polacca, Cristiana Uderstadt, che lavorava come giostraia a Genova. Purtroppo lei era già promessa sposa ad un aiuto regista di Roma. Non si persero di vista e la loro relazione dette scandalo. L’ accusa di concubinato li accompagnò finché il matrimonio di lei non venne annullato. Viveva dapprima in una soffitta, poi in un appartamento di Corso Umberto I nel centro di  Torino. Segnò gol belli e importanti come quello all’ invincibile Inter di Mazzola e Facchetti che ancora oggi fanno vedere in televisione. Entrò anche nel giro della Nazionale. La domenica 15 ottobre 1967 giocò la sua ultima partita contro la Sampdoria, vinsero i granata per 4-2. Quel giorno Nestor Combin il centravanti numero 9 del Torino fece tre gol. A fine gara Gigi nel complimentarsi gli disse che la domenica successiva nel derby avrebbe fatto altri tre gol.  La sera, sotto la pioggia, nell’ attraversare Corso Re Umberto con l’amico Fabrizio Poletti venne investito da un auto guidata da Attilio Romero, tra l’altro tifosissimo del Torino. Gigi morì poco dopo in ospedale. Era morto lo sportivo che più di altri aveva rappresentato gli anni 60 con il suo talento sportivo, artistico con la sua vita unica e controcorrente. Nella storia del Torino fatta di drammi e collegamenti misteriosi c’è da menzionare la tragica omonimia che lega Gigi Meroni con Luigi Meroni il comandante dell’ aereo del Grande Torino morto a Superga il 4 maggio 1949. Il ragazzo che nel 1967 investì Meroni, Attilio Romero, nel 2000 divenne presidente del Torino. La domenica successiva si giocò in un atmosfera irreale il derby tra la favoritissima Juventus e il Torino. Quella domenica il Torino vinse 4-0 con tre gol proprio di Nestor Combin, e il quarto gol lo segnò il giovane Alberto Carelli che quella domenica vestiva la maglia numero 7. Un ultima curiosità è un dato statistico strano, quando il Torino gioca il 15 ottobre o in un intervallo strettissimo a quella data vince o pareggia, non perde mai. La farfalla granata, soprannome dedicato a Gigi Meroni, vola. Vola solo più in alto in una dimensione diversa più pura consentita a chi è stato trasfigurato dalla leggenda.

Ettore Poggi

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La conquista del diritto alla Lettura

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Oggigiorno è quasi scontato che chiunque sia in grado di leggere e di scegliere che cosa vuole leggere. In verità, questa conquista sociale è relativamente recente, soprattutto per quanto riguarda il mondo femminile.
Nel mondo occidentale l’alfabetismo di massa fu raggiunto soltanto durante il XIX secolo. Tuttavia la percentuale di lettrici femminili era molto diversa tra le residenti in città e in campagna, e soprattutto tra le capitali e il resto dei paesi.
Le prime letture che le donne ottocentesche erano incoraggiate ad intraprendere erano di stampo prettamente religioso, quali alcune vite dei santi e la Bibbia. Col tempo però le donne furono attratte da tipi di lettura per così dire più laici, e sorsero nuove tipologie di testi dedicati al mondo femminile come i libri di cucina e i romanzi popolari economici. I romanzi erano ritenuti squisitamente adatti alle donne, a loro volta viste come creature con capacità intellettive limitate, frivole ed emotive. Pertanto, il romanzo popolare fu ben presto associato a donne di scarse qualità e di dubbia moralità, donne che si lasciavano trascinare dall’immaginazione e dalle fantasie passionali di personaggi puramente inventati, come, per citarne uno soltanto, la famosissima Madame Bovary di Flaubert.
Questo tipo di letture erano quindi spesso, soprattutto nelle zone rurali, vietati dai capofamiglia.
Con l’avvento della prima guerra mondiale la donna poté cambiare la propria posizione sociale soprattutto a causa dell’assenza della figura maschile, impegnata sul fronte: molte donne ebbero infatti l’opportunità di cambiare il proprio stile di vita e il contesto sociale, estesero gli scambi interpersonali e si ritagliarono lo spazio necessario per frequentare circoli culturali e biblioteche.
Se si analizzano i tassi di analfabetismo oggi, c’è comunque un dato allarmante: secondo i dati dell’Institute for Statistics dell’UNESCO, il numero totale di analfabeti è di circa 771 milioni, di cui 2/3 di donne. Questo numero fa riflettere e pone sicuramente l’accento sulla disparità tra i sessi, tutt’oggi ancora presente, e sulle diverse possibilità di accesso alla cultura che hanno uomini e donne.

Maria 

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Pio XII, Defensor Urbis

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La periodica riproposizione del processo di beatificazione di Papa Pio XII riapre il dibattito sulla figura e sul ruolo del romano pontefice durante la seconda guerra mondiale. Eugenio Pacelli fu a capo della Chiesa con il nome di Pio XII dal 1939 al 1958. Il contesto storico all’interno del quale si inserì l’azione dal papa risulta essere particolarmente complesso: la fine degli anni Trenta vedono una difficile situazione di accordo tra lo Stato italiano e lo Stato pontificio, situazione derivante dalla conquista di Roma di fine diciannovesimo secolo e dalla sua trasformazione in capitale del Regno d’Italia. In concomitanza, proprio in questo periodo, si afferma in Italia il Fascismo, fenomeno nuovo e trasversale che si impone sulla scena politica italiana e internazionale, a cui segue ad inizio anni Quaranta lo scoppio della seconda guerra mondiale, il difficile momento dell’armistizio, l’occupazione delle truppe tedesche, il bombardamento di Roma, la liberazione dell’Italia; dagli anni Cinquanta inizia l’evoluzione della società post secondo conflitto mondiale con i presupposti di un nuovo boom economico e, a livello internazionale, la “guerra fredda” tra Usa e Russia. Durante tutti questi avvenimenti si concretizzò il ruolo di Pio XII: storicamente risulta complesso esprimere un giudizio razionale, oggettivo e unanime sulla sua attività di pontefice. Ad oggi, si hanno due tipi di valutazione: una negativa, secondo la quale Pio XII operò nel silenzio, non condannando l’azione nazista di genocidio nei confronti degli ebrei d’Europa, non proteggendo gli ebrei romani, non impedendo il massacro delle Fosse Ardeatine; secondo l’altra valutazione, quella difensiva, fu solamente grazie alla sua opera silenziosa che Pio XII poté accogliere negli edifici vaticani centinaia di ebrei, salvando così loro la vita. L’immagine impressa nella memoria storica collettiva italiana, che lega Pacelli al conflitto, è la sua presenza nel quartiere di San Lorenzo, dopo il bombardamento americano del luglio 1943: il papa senza scorta, su una semplice auto, accompagnato solamente dal suo segretario Montini, futuro Paolo VI, si precipitò nel luogo più colpito dai bombardamenti americani, pregando tra la folla Quell’immagine lo eresse a defensor urbis. Ciò che dal punto di vista storico risulta essere meno noto è che, grazie all’azione silenziosa del romano pontefice, Pacelli estese l’extraterritorialità anche al di fuori dello Stato del Vaticano, nella città di Roma, permettendo così agli edifici ecclesiastici romani di non essere perquisiti dalle truppe tedesche e di poter accogliere e salvare ebrei, militari, partigiani e ricercati politici. Attualmente Pio XII ha raggiunto la qualifica di venerabile per la Chiesa cattolica e il processo di beatificazione può essere avviato solo in presenza di un miracolo attribuibile alla sua intercessione. Solo un miracolo può, quindi, rivalutare l’azione di un pontefice vissuto in un’epoca di cambiamenti troppo forti e radicali anche per la stessa Chiesa romana. Solo così si può spiegare il motivo per cui il suo successore, Giovanni XXIII, sentì l’esigenza di indire un concilio vaticano in cui discutere dei cambiamenti avvenuti nel mondo, di quelli che si stavano verificando all’interno della società e di provare a tracciare una nuova rotta per la Chiesa. Il riassunto del pontificato di Pio XII si legge nella sua dichiarazione radiofonica pronunciata in occasione del natale del 1943:

Noi abbiamo fatto e faremo sempre quanto è nelle nostre forze materiali e spirituali per alleviare le tristi conseguenze della guerra, per i prigionieri, per i feriti, per i dispersi, per i randagi, per i bisognosi, per tutti i sofferenti e i travagliati di ogni lingua e nazione” Pius PP. XII

Roberto

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