Peppino Impastato nacque il 5 gennaio 1948 a Cinisi, in provincia di Palermo; morì all’età di trent’anni per essersi opposto e per aver denunciato il sistema mafioso presente nel proprio territorio. Peppino fu un giovane che non accettò di allinearsi al clima omertoso presente nella Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta, non accettò mai di tacere di fronte all’evidente corruzione chela mafia e i clan della provincia di Palermo conducevano nelle zone della provincia, non accettò mai di rimanere in silenzio di fronte ai soprusi e alle violenze dei mafiosi nei confronti di coloro che, pochi, osavano ribellarsi, non accettò mai di abbassare la testa e di baciare la mano al boss del paese, non accettò mai di considerare persa la sua battaglia solitaria di giustizia, libertà e condanna della mafia. Peppino denunciò i boss mafiosi, compreso quello del proprio paese, Don Tano Badalamenti, e l’atteggiamento mafioso dei suoi compaesani, dei siciliani e di tutti coloro che pur vedendo, pur sapendo, giravano la testa per non vedere, non sentire, non sapere, facendo così il gioco di Cosa Nostra. Peppino lottò ogni giorno per liberare la propria terra dalla mafia. Ritengo che tutto quello che si debba sapere sulla vita di Peppino Impastato sia questo. C’è, tuttavia, una seconda biografia che mi piacerebbe portare alla luce e che sembra accomunare tanti altri ragazzi, uomini e donne, magistrati, commissari di polizia, agenti di polizia e uomini della scorta, morti giovani per mano della mafia: Rosario Livatino (38), Calogero Zucchetto (27), Roberto Antiochia (23), Ninnì Cassarà (38), Beppe Montana (34), Antonino Montinaro (30), Rocco Dicillo (30), Vito Schifani (27), Claudio Traina (27), Eddi Walter Cosina (31), Emanuela Loi (25) e Vincenzo Fabio Li Muli (22) e tanti altri. Costoro furono accomunati dalla convinzione che la legge fosse il bene e la mafia il male, soli nella propria terra e tra la propria gente, considerati illusi per la volontà di sconfiggere un avversario troppo forte e potente, considerati scomodi per non rimanere al proprio posto, in silenzio come tutti gli altri. Mi piace ricordare Peppino e questi ragazzi trentenni come persone che con coraggio hanno scelto di dire no alla mafia, hanno deciso di rimanere dalla parte del bene nonostante il male fosse più forte, hanno scelto di lottare per cambiare le coscienze con il loro esempio, hanno respirato quel “fresco profumo di libertà” che la ha rese libere di rifiutare “il puzzo del compromesso morale, della contiguità e quindi della complicità“. E’ stato grazie al sacrificio di Peppino che la gente ebbe il coraggio di affiggere un manifesto con scritto che Peppino non si era percosso da solo e poi suicidato, come brillantemente avevano subito riportato le forze dell’ordine e gli organi di stampa locali, ma che gli assassini di Peppino avevano un nome: “Mafia”. E’ stato grazie al sacrificio di Peppino che i giovani siciliani ebbero il coraggio di mobilitarsi, anche il giorno del suo funerale e di scortarne in massa la bara, di scendere in piazza e di manifestare a viso aperto il proprio dissenso verso i mafiosi.Cento passi separavano la casa di Peppino da colui che lo fece ammazzare, Don Tano Badalamenti. Il boss di Cinisi non capì mai Peppino, lo ritenne sempre più scomodo che pericoloso, circondato da pochi amici innocui: Don Tano comprese solo il giorno del funerale di Peppino, quando il suo ordine rivolto ai cittadini di Cinisi di non partecipare non venne ascoltato, quando vide la gente in piazza a manifestare contro la Mafia, quanto era stato grande Peppino e quanto aveva saputo coinvolgere le persone senza armi, soldi o potere, solo con la forza delle sue idee di bene e giustizia.
Cento passi che si trasformarono da quel giorno in migliaia di giovani passi che tutt’oggi camminano insieme per gridare, come faceva Peppino, che la Mafia è una montagna di merda.
Roberto Rossetti