Guglielmo Jervis, conosciuto più semplicemente come “Willy”, nacque a Napoli nel 1901 da una famiglia di naviganti inglesi. Laureato in ingegneria nel 1926, dopo alcuni anni nell’esercito venne assunto dall’azienda italiana Olivetti. Fu, da sempre, un esponente attivo della comunità valdese e grande appassionato di alpinismo. Dopo l’08 settembre 1943, giorno dell’Armistizio, Willy entrò a far parte del movimento partigiano nella zona di Ivrea, dove poté sfruttare sia la conoscenza dell’inglese, intrattenendo rapporti con gli alleati, sia le sue doti di alpinista. Dato il clima di sospetto nei confronti di tutti coloro i quali non si erano schierati apertamente a favore del fascismo, su consiglio del sig. Olivetti, Jervis si trasferì in val Pellice, in provincia di Torino, dove tutt’oggi risiede la più grande comunità valdese d’Italia e dove Willy poté proseguire le sue attività nella Resistenza.
L’11 marzo 1944 Willy fu arrestato, casualmente, dalle S.S. nei pressi del ponte di Bibiana: i militari capirono subito di aver tra le mani un esponente importante della lotta partigiana, a causa del materiale di sabotaggio e dei documenti militari che Willy aveva con sé. Una volta tradotto in carcere lo esposero ad atroci torture. Nonostante le sofferenze, Jervis non lasciò trapelare alcun tipo di informazione, che avrebbe potuto compromettere i compagni e la lotta partigiana. E’ doveroso ricordare che a quel tempo Willy era già marito di Lucilla e padre di tre figli piccoli, Giovanni, Letizia e Paola, fatto che rende ancora più stoico il comportamento dell’uomo.
In attesa dell’ordine di fucilazione, per cinque mesi Willy visse sospeso tra la vita e la morte, in bilico tra torture mostruose ed imminenti esecuzioni. Durante questo periodo, Jervis, grazie ad una guardia carceraria compiacente, intrattenne un carteggio segreto con la moglie. Le lettere sono state raccolte, oggi, in un libro edito dal titolo “Un filo tenace”. Ne riportiamo alcune righe, le quali rappresentano la fotografia di quei momenti di pena e dolore:
“Temo sia suonata la mia ultima ora. La fede non mi abbandona e l’ultimo mio pensiero sarà per voi miei cari! Mi hanno preso con altri, messo al muro, legate le mani. Poi mi hanno messo in cella in attesa. Non mi faccio illusione e prego Dio dia a me forza a te consolazione. Sono tranquillo per me ma quale angoscia per voi! Quante cose vorrei dirti. Tu sai il mio amore per te e i bimbi. Dio vi benedica e vi guardi! Ci troveremo certo di là”.
Nella notte tra il 4 e il 5 agosto Willy ed altri quattro partigiani furono trasportati, dai soldati tedeschi, nella piazza di Villar Pellice e fucilati: il cadavere di Jervis fu legato ad un carro e trascinato per le strade del paese; infine, la salma venne impiccata ad un albero e lì lasciata per giorni, per pubblico ludibrio. L’azione nazista doveva rappresentare un monito per i paesani ad interrompere, immediatamente, ogni azione e forma di resistenza. Ciò non accadde, anzi l’esempio di Jervis convinse i partigiani ad insistere nella resistenza, supportando attivamente gli alleati.
Le ultime parole di Jervis, trovate incise con uno spillo nella Bibbia, unico testo di conforto durante i patimenti in carcere e proprio per questo prova del riconoscimento del cadavere, sono state: “Non piangetemi, non chiamatemi povero; muoio per aver servito un’idea”.
Alla memoria di Guglielmo Jervis sono oggi dedicati due rifugi alpini, di cui uno in alta val Pellice. Willy Jervis è stato insignito della medaglia d’oro al valore militare. Di lui, oggi, rimane una flebile traccia nei testi che trattano della Resistenza, troppo poco per una persona la cui esistenza è stata dedita a ideali quali libertà, difesa e patria e per i quali ha sacrificato la propria vita.
Maria