Il 14 febbraio 2004 Marco Pantani viene rinvenuto cadavere nella sua camera, in un motel a Rimini. Il campione romagnolo è stroncato da un attacco cardiaco in seguito a overdose di cocaina: il corpo è sdraiato, la testa reclinata. La stanza è sottosopra con scritte sulle pareti e su ogni angolo in cui esista un minimo spazio per riportare un pensiero, carta d’identità compresa. Ciò che Marco scrive non sono pensieri, ma urla rimaste sorde, grida di un uomo solo in cerca di aiuto, ma abbandonato dal mondo, anche da se stesso. Solo, come sempre, come ancora una volta, come l’ultima in quell’anonimo motel. Solo come quando in sella alla sua bicicletta scalava le vette del tour e del giro, che lo consacrarono nell’olimpo del ciclismo. Per quella bandana che indossava per proteggersi la testa calva dal sole, i tifosi gli attribuirono il soprannome di pirata: tutti, ma proprio tutti, sanno che i pirati sono uomini impavidi e coraggiosi, i primi a gettarsi nella mischia, a volere tutto. Pantani era sì un pirata, ma atipico: fragile, schivo e riservato, arrossiva anche a cantare la sua “Romagna mia”. La fragilità dell’uomo era compensata dalla tenaci dell’atleta, sulla quale aveva fatto leva più volte per superare i momenti più difficili: come quell’incidente alla Milano-Torino nell’ottobre del 1995, decretato dai medici come la fine della sua carriera. Marco si allenò giorno e notte e tornò più forte di prima. La prima volta che si rimise in sella lo fece del garage di casa sua, a Cesenatico, con presenti i genitori e un amico che riprendeva l’evento con una video camera: un giro del perimetro dell’autorimessa gli bastò per sentire di nuovi quelle vecchie sensazione che solo la bici gli sapeva far provare, “Avete visto che so ancora andare in bici”. Il pirata tornò per vincere tutto, giro e tour nello stesso anno. Nel 1999 un altro colpo, questa volta fatale: a Madonna di Campiglio, Marco Pantani viene presentato al mondo come un ciclista dopato, un corrotto, esposto al pubblico ludibrio; scortato dai carabinieri fuori dall’hotel commenta mestamente: “Sono caduto tante volte e mi sono sempre rialzato, ma questa volta non mi rialzerò più”. Aveva ragione, Pantani è rimasto lì, a Campiglio, a quel tasso di ematocrito pari a 52, aveva pagato da solo, per un intero mondo che, pochi anni, si scoprì essere ancora peggiore, tra trasfusioni di sangue e assunzione di farmaci dopanti. Allora ci si rese conto che Pantani aveva pagato da solo e troppo, ma era troppo tardi per recuperare il campione. Ma il ciclismo è fatto di sensazioni, di amore e di passione e i ricordi più belli di Pantani sono quelli coltivati dai tifosi nella memoria del nostro paese: il campione che ai piedi della salita guardava gli avversarsi, sistemava la bandana, controllava la marcia della bici, spostava nel mani in basso sul manubrio, si alza sui pedali e scattava. Oggi per Marco e su Marco rimane sono tanta tristezza e pietà per un uomo solo, sfruttato all’apice della carriera e poi abbandonato. Gotti vinse il giro nel 1999 con merito, ma sulle strade non sentiva quello che sentivi tu:
“Le emozioni più forti le ho provate lungo le strade, quando sentivo la gente che gridava così tanto Pantani che mi veniva il mal di testa”
Marco Pantani
Roberto Rossetti