Il 6 febbraio ricorre la giornata internazionale contro l’infibulazione, ovvero la mutilazione genitale femminile.
Il termine infibulazione deriva dal latino fibula, spilla. Si tratta di una pratica che ha esclusivamente origini culturali e non religiose, anche se è per lo più diffusa nei paesi di fede islamica.
L’infibulazione è praticata su bambine e ragazze in età adolescenziale, spesso senza alcun tipo di anestesia. L’operazione consiste nell’esportazione del clitoride, delle piccole labbra e parte delle grandi labbra, e termina con la cucitura della vulva; essa viene “scucita” soltanto al momento del matrimonio per permettere il rapporto sessuale e il conseguente parto. Dopo la nascita, la vulva viene ricucita.
La storia di questa pratica è molto antica e avvolta nel mistero; nata probabilmente nell’antico Egitto, era praticata anche a Roma come misura per controllare la sessualità delle schiave. Erano e sono le donne a praticare l’infibulazione ad altre donne, si tratta in sostanza di una pratica che viene trasmessa da madre in figlia. Per lo più viene vissuta come una sorta di rito di iniziazione, e le madri, nonostante abbiano provato a loro volta il dolore fisico e psicologico che comporta tale operazione, desiderano che le proprie figlie vi siano sottoposte perché altrimenti non sarebbero accettate dalla società, in quanto sarebbero considerate degli essere “impuri”, impossibilitate a contrarre matrimonio.
Nel mondo sono più di cento milioni le donne che subiscono questo trattamento, in più di quaranta paesi, e con punte che sfiorano il 100% della popolazione femminile in Egitto e in Somalia. Anche nelle grandi metropoli occidentali si registrano centinaia di migliaia di donne infibulate, e nella sola Italia sono più di quarantamila.
Nemmeno i sostenitori del multiculturalismo possono restare indifferenti a questa usanza e tradizione così poco giustificabile, il cui significato è sinonimo solo alla perdita della propria individualità e dei propri diritti fondamentali, oltre che a innumerevoli rinunce e sofferenze.
Maria